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Geronzi: «Così Mediobanca cambia per crescere»

di f. de b.

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Venerdí 01 Agosto 2008

Nell'ufficio del presidente di Mediobanca l'ora è sempre segnata da un rispettoso orologio del Settecento anche se il ticchettio è sovrastato dal sonoro di un televisore a cristalli liquidi, sempre acceso su SkyTg24. Cingano, che occupò a lungo quello studio, l'avrebbe guardato con orrore. Geronzi, più avvezzo ai rumori di fondo (e a quelli di strada), ne è persino compiaciuto. Nulla sembra turbare la sua sicurezza e il suo umore. Anche dopo dure battaglie come quella che si è appena conclusa sulla governance con il management e una parte (UniCredit) dei suoi azionisti. Gli orologi Hour Lavigne e La Vallée in piazzetta Cuccia continuano il loro onorato servizio ma, con questo colloquio, Cesare Geronzi, 73 anni, sembra dire, piaccia o no, che i tempi dell'istituto li scandisce lui. Punto.

Un osservatore disattento potrebbe subito rivolgergli questa domanda. Il sistema duale (o dualistico), oggi rinnegato, fu adottato, con tanto di illustri pareri giuridici, un anno fa, all'epoca del passaggio delle consegne fra Galateri e lei. Possibile che nessuno si fosse accorto che non avrebbe funzionato? «Vede, talune fusioni, come quella che ci riguardò, e diverse operazioni, si sono trovate a sperimentare il sistema dualistico di una riforma, la Vietti, appena varata. Quel sistema è adatto a una cogestione, non a caso ha origine nella tradizione sindacale tedesca. Non a una banca. E là dove funziona, penso a Intesa Sanpaolo, è perché vi sono persone di qualità ed educate».

Geronzi lamenta equivoci e fraintendimenti fra i rappresentanti degli azionisti, ridotti nel consiglio di sorveglianza al mero ruolo di sindaci, senza averne peraltro i poteri, ma con le responsabilità di amministratori; la scarsa chiarezza su chi dovesse proporre l'iniziativa di una delibera; la curiosa posizione dei membri del consiglio di sorveglianza chiamati ad approvare ex post un piano strategico varato dal management con il rischio di aprire, in caso di una bocciatura, una crisi societaria. E via di seguito.

Diciamo, presidente, che quel duale affrettato fu il prezzo, a mio avviso troppo salato, pagato da Mediobanca alla fusione fra due suoi azionisti, UniCredit e Capitalia. «Diciamo così…». Ma Profumo e Rampl non erano d'accordo, in un primo momento, per rivederlo? Come mai hanno poi cambiato idea? Il presidente dà uno sguardo all'agenda. «Quattordici luglio, colazione con il dottor...». Il giorno della Consob. «Esatto». Geronzi ricorda molte riunioni, tanti sì, condivisioni fra gli azionisti, compresi i rappresentanti di UniCredit. «E poi stranamente una domenica appaiono idee diverse, così d'un tratto».

Su iniziativa anche di Draghi, ci era sembrato di capire, preoccupato dalle conseguenze di una clamorosa frattura interna e dal giudizio degli investitori. «Mah, il mio rapporto con il governatore, anche in questa vicenda, è stato eccellente. Sa, direttore, io sono in banca dal 1960 e ho sempre seguito una regola aurea: freddezza, distacco e trasparenza. Io, quando ci sono momenti difficili, mi confronto, dialogo, magari litigo, ma ragiono. Non dico, come nei casi Rcs e Telecom, "non mi interessa nulla di questioni di mero potere", e poi salto fuori d'incanto in una domenica di luglio perché ho cambiato idea...».

Mi sembra di capire che qualche problema, e serio, con l'UniCredit ci sia? «La dialettica tra persone intelligenti è assolutamente normale. L'importante è che restino la stima e l'apprezzamento reciproco. Sono in Mediobanca da sedici anni. Quando vi entrai, i giovani di oggi erano funzionari o dirigenti alle prime armi. Ho passato otto anni con Cuccia e poi con Maranghi. Mi sono trovato in contrasto con Maranghi, con il quale conservai una amichevole consuetudine fino alla morte, una sola volta, sa quando? Quando l'autoreferenzialità del manager, pur bravo, ma che non era Cuccia, arrivò a calpestare i diritti degli azionisti».

I giovani “leoni”, inutile ricordarlo, sono i manager di Mediobanca, in particolare Alberto Nagel e Renato Pagliaro, con i quali è stato già avviato un dialogo sul percorso che porterà, da qui all'assemblea di ottobre, a rivedere la governance di piazzetta Cuccia definendo alcuni ruoli per i membri dell'attuale consiglio di gestione. Si direbbe che lei, presidente, con i giovani manager (vedi Arpe in Capitalia) non sia mai andato troppo d'accordo. Forse, non le viene il dubbio che qualche volta la responsabilità sia sua?

«Guardi, io ho piena fiducia in loro, e l'ho riconfermata. Pensi che alla vecchia governance io non avevo messo mano, loro sì. Certo non potevo accettare che avessero una sorta di diritto di veto esercitabile contro gli azionisti. O che volessero la maggioranza nel comitato esecutivo. O che dicessero: se fate così ce ne andiamo. Ma scherziamo! In altri Paesi sarebbe successo il finimondo. E anche qualcosa di più. Il management non può parlare con gli azionisti e in qualche caso fuorviarlo con informazioni non corrette. Il referente degli azionisti è solo il presidente del patto di sindacato sempre a disposizione, se richiesto, per qualsiasi informazione. E poi, se qualcuno pensa che la propria importanza in azienda, ma parlo in generale, sia proporzionale alle stock options e al livello, non certo risibile, dello stipendio, beh, si sbaglia, ovunque si trovi».

  CONTINUA ...»

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